Mindfulness come strumento di terapia

La mindfulness così come viene insegnata nei principali programmi (MBSR, MBCT) non è in se stessa una terapia, ma può essere un importante catalizzatore di processi terapeutici.

Per comprendere le potenzialità terapeutiche della mindfulness e soprattutto per utilizzarla in modo appropriato in terapia, sono necessari due passaggi.

Innanzitutto bisogna identificare l’aspetto della mindfulness che possiede “capacità” terapeutiche, in seconda istanza è fondamentale dirigere la pratica della mindfulness in una specifica direzione per ottenerne l’effetto terapeutico.

Identificare la componente terapeutica della mindfulness   

La pratica della mindfulness è per sua natura aspecifica. Quando si pratica la mindfulness si richiede che si presti attenzione a uno specifico oggetto dell’esperienza – ad esempio il respiro – inoltre si chiede al praticante di riconoscere gli eventi dell’esperienza che “distraggono” dall’oggetto principale dell’attenzione.
L’aspecificità della pratica consiste nel fatto che anche quando si utilizza uno specifico oggetto di attenzione (ad esempio il respiro), gli eventi mentali che distraggono dal focus principale diventano anch’essi oggetti della pratica! 
Tipicamente, le istruzioni che vengono fornite quando si guida una meditazione sono circolari. Ad esempio, si chiede di prestare attenzione alle sensazioni del respiro, di notare quando l’attenzione viene invece catturata da altri eventi (altre sensazioni, emozioni, pensieri) e di riportare l’attenzione al respiro.

In questo processo circolare è proprio il riconoscimento di eventi mentali che del tutto involontariamente distraggono dal principale focus di attenzione che viene particolarmente enfatizzato e incoraggiato.
Gran parte del lavoro di chi guida la pratica della mindfulness consiste nel richiedere di accettare la distrazione come un evento inevitabile, di non considerarlo un fallimento della pratica.
Questo lavoro contrasta esplicitamente l’opinione del neofito che tipicamente tende a considerare la distrazione come un fallimento dell’obiettivo della pratica che a suo avviso consisterebbe nel prestare continuativamente attenzione al principale focus di attenzione (ad esempio il respiro).
Spesso è necessario un significativo periodo di training perché il praticante realizzi che l’obiettivo della mindfulness non è la “concentrazione” indefinita su uno specifico focus di attenzione, ma la capacità di riconoscere e accettare gli eventi mentali che distraggono dal focus.
Nel tempo, il praticante realizza che non ha senso provare a controllare la mente e a impedire le deviazioni dell’attenzione che invece insorgono spontaneamente e fanno parte del funzionamento “normale” della mente.
Man mano che si realizza questa consapevolezza, il praticante si accorge che maggiore è il grado di accettazione e riconoscimento delle distrazioni, maggiore è la capacità di calmare la mente e ridimensionare la sua attivazione.
Questo fenomeno viene considerato un vero e proprio paradosso tanto sconcertante, quanto liberatorio: per calmare la mente e stare nel presente non c’è altra strada che riconoscere e accettare la sua attivazione.
A questo punto si apre la strada di utilizzare terapeuticamente la mindfulness come uno strumento di riconoscimento dell’attività mentale in quanto tale.

Dirigere l’attenzione sulla difficoltà

Una volta che il praticante è consapevole delle deviazioni della mente, è possibile invitarlo a dirigere la propria attenzione proprio su quelle deviazioni, e specificamente sulle deviazioni che costituiscono una difficoltà emotiva.
Porre al centro dell’attenzione proprio la difficoltà emotiva è il passaggio fondamentale dell’attivazione di un vero e proprio processo terapeutico.
L’effetto terapeutico specifico che si ottiene è precisamente un processo di defusione che può essere utilizzato in terapia per riprocessare l’informazione interna e modificare profondamente alcune convinzioni disfunzionali.


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